
I Racconti della Controra sono il libro d’esordio della giovane scrittrice Rebecca Lena.
La definizione di scrittrice non è sbagliata, ma non le si attaglia del tutto, non è esaustiva. Rebecca è anche e forse soprattutto una poetessa, anche se non mette gli “a capo” alle frasi per farne versi.
È un fatto che nel ricco vocabolario italiano non vi sia una definizione che accolga queste due attitudini — scrivere narrando e scrivere poetando — e le fonda in un facoltà coesa, simbiotica, inscindibile. Eppure sono stati molti nella storia letteraria gli autori giunti a fama che hanno scritto prose essenzialmente poetiche — Erri De Luca è il più recente che mi viene in mente.
La scrittura di Rebecca Lena appartiene a mio avviso a questo filone. Se il narratore per così dire tradizionale è un escursionista che per andare da un versante all’altro di un canalone prende atto di dover percorrere un sentiero che scende e poi risale, il narratore-poeta si lancia in volo con una liana, velleitariamente e senza troppi calcoli. Liane sono le figure retoriche che collegano parole lontane e che possono dare a una frase poetica, che sia un verso o meno, la densità di una pagina intera e forse più.
«Ho sete. Ma non d’acqua, del mio sangue che scorre. Devo correre. Devo sciogliere tutti i nodi delle vene»… «Non morire, ma rompere le lenti degli occhi perché non mettessero più a fuoco; allontanando ogni capacità di distinzione»… «Ti scioglierai con me, ci scioglieremo i capelli sulla riva, fra viscere marine, i nostri nodi di carne, banchi di mani e alghe tenere»… Sono solo alcuni esempi della cifra, del sentire di Rebecca Lena.
Nel suo blog Rebecca precisa questa sua inclinazione: «…amo la frammentarietà delle forme brevi, libere di cambiare direzione in qualsiasi momento, di saltare un po’ ovunque nello spazio e nel tempo etereo, fuoriuscire talvolta in modo lento e magmatico, oppure esplodere viscosamente in blocchi, lapilli e ceneri.» Ecco spiegata, in poche parole, un’intera poetica. L’estemporaneità dell’ispirazione, il non-progettare, il lasciarsi trascinare dal fluire del Tempo che è come una fetta di pane su cui spalmare parole che sgorgano come borborigmi dell’anima.
In un’altra pagina del blog, Rebecca Lena ci spiega che cos’è per lei la Controra. « Quell’arco di poche ore, in mezzo ad una tipica giornata d’estate, in cui il Sole brucia perpendicolare sulla terra. Quando lui ama beffarsi degli esseri viventi, cuocendo le loro teste, divorandosi le loro ombre, di modo che possano temere di esser morti all’improvviso. Sono gli attimi in cui il dubbio afoso ci assale, quello supremo, universale, che impedisce ogni tipo di azione. I pensieri d’un tratto cristallizzano, come formiche nell’ambra della coscienza.»
Controra è un termine dell’immaginario meridionale. Non può stupire. È là ed è in quelle ore che il sole ruggisce, mentre altrove al confronto miagola. La saggezza popolare esorta a temere la Controra, a ritirarsi in casa, a fare una siesta in attesa che passi, come se fosse l’Angelo della Morte. C’è tutta una mitologia mediterranea della Controra che affonda le sue radici nell’antichità classica e certo anche prima. Platone, Porfirio hanno solo raccolto e interpretato frammenti di sapienza retaggio di loro antenati. Al punto che il termine Controra si è esteso per cupa simpatia a tutt’altro ambito, quello giudiziario: da un certo periodo in avanti, diventa gergalmente l’ora in cui il confinato, il sorvegliato agli arresti domiciliari deve farsi trovare in casa per un controllo di polizia.
Max Manfredi, cantautore genovese affine come nessun altro al Faber, che meridionale non è ma mediterraneo sì, nella sua bellissima Azulejos (mi era subito venuta in mente leggendo il titolo di questo libro) cita questa fase critica del ruotare del fuoco sulle nostre teste: «…La controra che dà per scontato / Che l’ombra sia viva e che possa fuggire […] La controra che dà per scontato / Che spunti un ramarro tra le pietre sudate…»
Coincidenza: nel primo racconto di questa raccolta, La spiaggia, il passeggiatore-spettatore di questa Waste Land che è un lido abbandonato alla mareggiata, incontra una lucertola: « Un tempo erano bestie notturne, gelate come albori lunari d’inverno; fino a quando, una mattina, quasi per caso, non conobbero il Sole.»
Il volume di Rebecca Lena ci ammicca fin dalle parole della sua brevissima introduzione, che è più un’epigrafe: « Questo libro è solo una scatola di cose trovate per terra. Specialmente foto, sassi, resti marini, foglie. E ossa.» All’io narrante de La spiaggia che sfida, più sperduto che intrepido, la solitudine di una controra marina, nessuna sensazione è risparmiata nel suo percorso, al punto di avvertire che, se si tratterrà ancora in quel mondo selvaggio, affascinante come una sirena e come essa infido, finirà per essere trasformato anche lui in un “oggetto della spiaggia”, per ridursi come il cadavere animale ormai decomposto che è il suo ultimo incontro.
«Di notte, se fai attenzione, puoi vedere i segreti degli umani galleggiare nel buio», è l’inizio invitante di Riflessioni di una bestia di notte: l’umanità che ha il proprio epicentro vitale nella fase diurna, vista e raccontata nella sua “controra notturna” da una bestia che, contrariamente agli uomini, aspetta la notte — il suo elemento — per vivere. Nel corso della breve storia, la curiosità volge in meraviglia, quindi in paura, e alla fine in simpatia: «Forse siamo fili leggeri, tutti noi, tessuti dentro un’infinita stupefacente ragnatela.»
C’è anche una seconda vena di ispirazione da esplorare in questo libro. Ci sono storie raccontate come siamo abituati a leggerle, azione dopo azione, un passo sull’altro. Per esempio, ne La Torre, l’avventura del piccolo Milo che nel suo peregrinare all’interno di un rudere costiero (la torre di Scampamorte) si imbatte in persone che ai suoi occhi di bambino sembrano fantasmi, e poi osserva un fenomeno per lui magico, qualcosa di realmente avvenuto (come scrive l’autrice in una nota) nel 2013: un fitto sciame di piccole farfalle albine aveva attraversato per ben tre giorni la costa di Foce Schiapparo nel Gargano. «Migliaia di ali bianche travolsero improvvisamente il suo viso, sgorgando liberamente dalle fessure del suo corpo. Gli occhi di Milo seguirono lo sciame salire fino a diluirsi nella bianca dispersione, mentre sul suolo, ciò che rimaneva della sua pelle opaca si accartocciò adagio, come la muta di un serpente». Anche quando Rebecca sceglie il registro del racconto concepito come un continuum, non perde la propensione a cercare le scorciatoie tipiche del linguaggio poetico: «Capì immediatamente il miracolo a cui aveva assistito e una bolla di adrenalina e ansia dolce scoppiò dentro il suo diaframma disperdendosi in tutto il corpo».
Nel racconto successivo, Sagome, ritroviamo l’io narrante e l’atmosfera onirica, quasi visionaria del primo. Mi ha colpito un capoverso che riporto solo in parte (si allude alle mani incise sui muri del santuario di Monte Sant’Angelo): «È proprio quello il sibilo che ci attraversa uno ad uno, che attraversa le vertebre delle foglie, le fibre degli insetti; è come la frusta incessante che impedisce alle cose di rimanere immobili. Poiché tutto deve continuare a tremare, sempre. Cambiare, mescolarsi, riassemblare.»
Un sogno dedicato a chi non respira è un breve, delicato ricordo dove l’assenza di punteggiatura (il “non respiro”) dimostra come certi sentimenti, volatili come falene, a volte nascano con una natura fuggiasca e con il bisogno profondo di sottrarsi ai lacciuoli di una scrittura convenzionale.
Anche Castoreum può apparire al suo nascere come un racconto tradizionale. Non lo è. Il Tempo sembra sciogliersi nello Spazio e viceversa. Il continuo uso del traslato ha l’effetto di trasfigurare questo incontro tra un uomo e una donna nei pressi di un fiume, di velarlo attribuendogli quella magia che solo un contesto naturale non ancora contaminato da presenze umane è capace di comunicare, di imprimere. « Mi radicai sinuosa intorno alle sue gambe, ramificai intorno al busto, le braccia; germogliai sulle sue scapole e il collo. Fiorii sulla sua bocca. Lo sorbii tutto quanto, in un lungo tormentoso respiro, fino a quando non lo sentii appassire.»
Due occhi di madreperla è il racconto più lungo, sta lì come un’eccezione alla regola di un volume ispirato alla brevità. Il racconto parla di misteriosi cimeli di famiglia ritrovati in una soffitta e, come scatole cinesi, via via scoperti i cimeli raccontano del proprio passato. Così, un piccolo diario si rivolge a un lettore futuro, forse improbabile, narrando una storia antica, amara, disperata. L’apparente convenzionalità della storia non inganni: c’è sempre un sentore di polverina magica tra le righe, un accostamento inconsueto di aggettivi, «aria farinosa della soffitta», «occhi bisbiglianti», e gli esempi potrebbero continuare. Rebecca Lena ha il dono duplice di saper affabulare e di gonfiare le parole di fiato perché volino in cielo come palloncini colorati. In fondo non è difficile togliere peso alle parole perché stacchino il loro peso da terra: basta metterle apparentemente fuori posto, là dove nessuno le aspetta, basta creare parentele inedite tra sostantivi aggettivi e complementi. Il linguaggio usato come le sorprese dietro l’angolo di una fiaba, che fanno spalancare la bocca al bambino che la ascolta. E torna la Controra, in questa e in altre storie del libro, come un filo rosso, vero leitmotiv di questa avventura che è lo scandaglio della propria anima, a mezzo di un’esca fatta di una prima parola che ne pesca un intero branco, come altrettante sorelle.
Anche Il tè è una storia dove i fatti si mettono in fila senza cesure o parentesi di miraggi, ma è il modo di raccontare a essere per così dire eccentrico: è palpabile come il centro pulsante della narrazione non siano le azioni ma i pensieri o meglio le fantasie dei personaggi. È in questo mondo onirico e fatato, simile a una ragnatela, che si impigliano i fatti, come minuscoli insetti presi alla sprovvista.
Del brevissimo Diaframma zero mi ha colpito soprattutto una considerazione sugli alberi: «… gli alberi sono gli esseri viventi che preferisco. Paiono così pacati e imperturbabili. Ma se invece fossero consumati dall’odio e dall’ira? Se quell’essenza vitale, la stessa che porta loro a ramificare verso la terra e verso il cielo, fosse sorretta solamente da un autentico e assurdo furore? D’altronde l’odio e l’amore vibrano alla stessa frequenza.»
Il Diario di polvere lasciato su una mensola è una delle narrazioni di maggior respiro del volume. Come ogni diario è fatto di date (una di queste ha come sottotitolo consapevole un racconto di Cortazar che ho già recensito) un orologio che registra, non azioni quanto emozioni, reminiscenze, quasi una forma di autocontemplazione dell’io narrante concentrato su se stesso come un santone. «Bisogna amare gli esseri umani dentro al vapore dei baci, leggeri come condensa; unirsi è dare carne in pasto alle proprie bestie nere, ingabbiate nel costato. L’idea di Amore è altro, è per tutti gli esseri umani insieme e per tutte le cose, e per tutti i significati e i significanti, mai per un essere solo.»
Con Il rumore dell’inverno ritroviamo una storia di sapore tradizionale (ma per Rebecca Lena la tradizione è sempre qualcosa da maneggiare con cautela e di cui possibilmente sospettare). Altea, la giovane ragazza che fa da assistente allo zio fotografo, fotografo di defunti (si comprende dagli strumenti usati che siamo agli albori della fotografia) si trova messa a confronto con la morte di un bambino e ciò ne sconvolge la giovane mente ma al tempo stesso la spinge a farsi domande, a porle allo zio che non dà risposte convincenti. Il loro compito si limita a restituire la vita a un morto, sia pure quella vita falsa e artificiosa di una fotografia fatta con trucchi grossolani (l’albume per non far chiudere le palpebre) ma di sicuro effetto. Lo zio vive di questo: sa che la fotografia resta un documento inalterabile e prezioso per la famiglia e fa di tutto perché sia catturato, dal lampo al magnesio, un istante in cui Morte e Vita non hanno più un baratro che le divide ma sono un unicum dove pianto e disperazione non hanno spazio per incunearsi. «Forse l’anima risiedeva nel calore, continuava ad interrogarsi Altea quella mattina. E quando un cuore cessava il suo palpito, il corpo, inizialmente pieno, non poteva esserne abbandonato all’improvviso, piuttosto diveniva di un grado più morto ogni ora». Girellando incontra un giovane che accumula pietre e dal suo fare incerto capisce che non vede bene. «Tutti i suoi gesti in verità mostravano un’inconsueta sequenza meccanica di indugi, come se non vedesse bene ciò che calpestava». Si stabilisce uno strano rapporto di vicinanza, una specie di affinità filosofica tra queste due persone così apparentemente lontane, lui la saluta chiamandola “signorina al gelsomino” e lei resta allibita perché ha appena bevuto un Earl Grey.Nuovi incontri avvengono tra loro, lui prova insegnarle a conoscere le cose chiudendo gli occhi. Poi accade un incidente: la ragazza finisce nel fiume e rischia di annegare. Due mani sconosciute la salvano chiamandola Amelia… In famiglia, dove si sveglia convalescente e a letto, le dicono che quel ragazzo cieco in realtà ci vede benissimo: è il garzone del negozio del tè… chi era veramente? (ce lo svela una nota). Chi è Amelia? «Amelia nell’aria, Amelia che deve ancora nascere, stesa sull’argine del fiume, morta, viva.»
Questo libro è stato per me, per abusare di un titolo di Sterne, un breve “Viaggio sentimentale”. Rebecca Lena sa indubbiamente scrivere. Padroneggia il proprio lessico, lo piega ai disegni di un’ispirazione volutamente nomade e non premeditata, benché sorvegliata nella fase di revisione. Troviamo frammenti di vite disperse che non paiono mai sprecate, piccoli lucignoli di preveggenza o di saggezza. La pagina prende, tradisce lo sforzo meticoloso, la tensione verso una compiutezza espressiva che non è soltanto estetica.
Sono convinto che nelle sue corde (per quanto ho letto delle storie più articolate) non ci sia solo la prosa breve, come lei professa. La vedo matura per affrontare una narrazione di respiro, con personaggi scavati a fondo e non soltanto sbozzati come richiede la misura del racconto breve. Una lettura intensa, che fa pensare e talvolta volare: consigliata.
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